ISS pro

“Vaffanculo!” – urlò forte. Per la decima volta cercò di far partire quella dannata playstation e quel maledetto “ISS Pro”, ma non ci fu verso… Avrebbe voluto continuare quel torneo, la Master League, con la sua squadra del cuore che militava, mestamente, in serie C; l’aveva dotata dei più grandi campioni di sempre per potersi giocare, dopo esser riuscito a giungere nella massima serie, Campionato e Champions League al tempo stesso, ma… quella dannata consolle non ne volle proprio sapere.
Diede un pugno sul muro, e cacciò un terribile urlo per il dolore: quasi non sentì più la mano destra… Quel dannato gioco decise che non avrebbe funzionato, decise che la sua formazione non doveva giocarsi quei prestigiosi trofei contro le migliori squadre del mondo. Visto l’andazzo, si vide costretto ad uscire, anche se non avrebbe voluto. Era stufo. Stufo del solito bar, stufo dei soliti amici, stufo del solito “cazzeggio” bevereccio… tutto ciò che avrebbe voluto fare quella sera era rimanere in casa a veder trionfare la sua squadra. Invece, niente. Nemmeno la tele, requisita dai suoi genitori per vedere la moglie di un noto calciatore tentare di diventare famosa in un’isola deserta al largo del Pacifico.
Uscito di casa senza neppure salutare la famiglia, si diresse verso quello che sapeva essere l’unico bar del paese, dove (di sicuro) gli amici stavano parlando di donne che, a memoria d’uomo non si erano mai viste in quel locale; a parte forse Cettina, la moglie del titolare della cui appartenenza al sesso femminile, però, un po’ tutti dubitavano.

Svoltato l’angolo, una folata di vento gelido si fece strada verso l’interno del suo giubbotto appena un po’ aperto, penetrandogli fin dentro nelle ossa e costringendolo, con una smorfia di disappunto, a fargli voltare la testa verso il lato sinistro della strada. Proprio in quel momento vide per la prima volta un nuovo bar di cui non conosceva l’esistenza e che per lui poteva essere lì da un giorno come da un anno. Decise che era ora di provare un posto nuovo e vi si diresse risoluto, deciso a dare una svolta alla sua vita.
Una volta dentro, una bellissima ragazza dalla fisionomia latina lo accoglieva da dietro il bancone; lui strabuzzò gli occhi come avesse visto d’improvviso la luce dopo ore in una stanza buia e mentre era lì, immobile sulla soglia della porta con lo sguardo tra l’ebete e l’incredulo, la donna accennò un sorriso: d’improvviso avvertì come una vampata di calore, talmente forte da fargli dimenticare il gelo provato pochi istanti prima. Tolti allora il giubbotto e la sciarpa con un unico gesto, si appollaiò ad uno degli sgabelli vicino al bancone. “Ciao! Sei nuova di qui? Che bel posticino… cosa mi puoi portare da bere?” disse sforzandosi di mantenere l’aria dell’uomo sicuro di sé. ”Come ti chiami?” le chiese con un sorriso a sessantaquattro denti da far invidia ai testimonial dei dentifrici. “Mi chiamo Lola e son spagnola, per imparare l’italiano vado a scuola…”. Una filastrocca per bambini: che sciocchezza aver immaginato una risposta del genere. “Me chiamo Marisol” fu la risposta vera, ma nella sua voce gli parve d’udire qualcosa di mascolino: il sorriso, mantenuto sino a quel momento, gli si bloccò sul viso quasi fosse una paresi.

Si ridestò dal suo sorriso ebete, girò la sedia e cominciò a scrutare i clienti… Tutti uomini come al suo solito bar ma, al contrario dell’altro, qui vide gente gaia e allegra e non ravvisò interminabili discussioni sul calcio o partite a carte senza fine; notò che la birra Peroni era rimpiazzata da strane bevande colorate adornate da frutti tropicali e l’immancabile gara di rutti sostituita da una strana gara di risolini.
In quel locale gli parvero tutti contenti. Si divertivano al ritmo della musica del momento, pareva che si volessero bene tutti: lì era come se l’alcol non portasse depressione e risse, ma gioia e felicità.
In un angolo notò De Franceschi, politicante noto anche per essere strenuo difensore della famiglia. Non era solo, ma in compagnia di un ragazzo bellissimo, più giovane di lui, dal viso d’angelo e femminile; ma un viso caratterizzato come da un velo di tristezza… Al contrario degli altri, lui non sorrideva mai, teneva la testa abbassata e nei suoi occhi era possibile leggere la consapevolezza di chi sa come dovrà terminare la serata, una volta uscito dal locale.
“Che bello, – pensò – anche i politicanti di una certa fama riescono a divertirsi portando con sé elettori sconosciuti…” Gli piacque, quel locale. Per la musica, per gli intrugli colorati e per i clienti. Fu felice d’averlo scoperto e l’indomani era già pronto a consigliarlo ai suoi amici, nella speranza che la frequentazione di quel posto magico gli facesse perdere quell’alone provinciale e grezzo tipico della gente del suo paese, per lui come dimenticato da Dio.
Lo ridestò da quel sogno la voce di un ragazzo che si era avvicinato a lui: “Ciao” disse “mi chiamo Gago. E tu?”
Sorpreso non seppe come rispondere, ma questo non impedì ai due di fare amicizia e cominciare a chiacchierare. Era simpatico Gago: intelligente, spiritoso e aveva i suoi stessi gusti musicali e le medesima idea del mondo. Pensò a quanto fosse simpatico quel ragazzo che, allegramente, dissertava della magia dei vestiti da sposa.

Eppure era convinto che il locale fosse vuoto quando vi era entrato. E dov’era finita la ragazza del bancone? Diede un’altra occhiata in giro e che anche le dimensioni del locale sembravano cresciute. “Scusa, devo allontanarmi un attimo” fu la scusa che rifilò a Gago, il quale continuava a tirare in ballo velette, strascichi e diademi, e fece un giro per il locale aguzzando la vista in cerca di Marisol. C’era qualcosa che non quadrava ma non capiva cosa, continuava a girare per il bar, che si faceva sempre più grande, incrociando centinaia di facce sorridenti e ammiccanti, mentre il sottofondo musicale diveniva sempre più forte e assordante. Si girò verso l’uscita e la vide mentre indossava il suo spolverino di pelle color cremisi; cominciò a urlare “Marisool!!” ma la sua voce si perdeva nel frastuono, era come un pesce in un acquario: la bocca gli si spalancava, ma sembrava non uscisse nessun suono. Provò un senso di oppressione, cominciò a spintonare e mandare a terra chiunque si trovasse nella sua traiettoria e, proprio prima di uscire lei si girò, lo vide e gli regalò un malizioso sorriso accompagnato da un ‘blink’ dell’occhio sinistro. A fatica giunse all’uscita ma, una volta fuori, lei non c’era più. Fece qualche passo di corsa per vedere se avesse svoltato l’angolo: niente, era come inghiottita dal buio. Decise allora di tornare al locale, si voltò ma si accorse che era sparito anche quello, al suo posto una saracinesca abbassata, “possibile che abbiano chiuso così d’improvviso?”. Si incamminò, turbato e perplesso, finché giunto vicino casa la vide lì, davanti al suo portone.
“E tu che ci fai qui? Abiti qui vicino? Prima ti ho persa nella confusione...”, ”quale confusione? Eravamo solo io e te, mi hai dato il tuo indirizzo e sei uscito di corsa… ti aspetto da un po’… saliamo?”, “sì, ma facciamo piano che i miei dormono” e si diressero verso l’ascensore. Non capiva, ma in quel momento non gli importava di capire, né di fare domande. L’ascensore incominciò a salire, i loro sguardi s’incrociarono per un tempo che pareva infinito, prese a due mani tutto il coraggio di cui era capace, chiuse gli occhi e lentamente avvicinò le sue labbra verso quelle di Marisol.

Fu un bacio intenso. Uno di quei baci che si ricordano per sempre e si portano pure nel letto di morte. Era felice e decise di aprire gli occhi per rivedere in volto la sua amata, ma non appena li aprii si accorse di non essere più nell’ascensore, ma in uno studio televisivo.
Marisol stava alla sua sinistra, qualche metro distante a lui, e non si faceva chiamare più così, bensì Maria. Aveva con se una cartelletta e gli stava chiedendo se voleva aprire la busta.
All’inizio non capii quella domanda, ma subito dopo si rese conto che davanti a lui c’era una grossa busta di lettere con un piccolo schermo al centro dove era proiettata la sua playstation con ISS Pro che “girava”. Maria gli ripeteva che se avesse aperto la busta avrebbe avuto la possibilità di continuare a giocare col suo gioco preferito e di acquistare il grande campione che in ogni torneo gli era sempre sfuggito per questioni di bilancio.
Non sapeva come rispondere, era realmente arrabbiato con la sua consolle e con quel dannato gioco che quella sera non era voluto partire, non gli poteva perdonare di averlo costretto ad uscire di casa.
Si guardò attorno e vide uno stuolo di vecchie bizzoche che, con urli di scimmie selvagge, lo spingevano ad aprire la busta e a riappacificarsi con la compagna di tante serate.
Era in stato confusionale e continuò a guardarsi attorno con la sua faccia da ebete, finché la sua attenzione non venne attirata da ciò che vide all’interno di telecamera: il vecchio bar, con gli amici, intenti a giocare a carte e Antonio, l’ubriaco del paese, intento a trattare il prezzo dell’ennesima birra Peroni con Cettina.
Si avvicinò alla telecamera e gridò con tutta la voce che poteva, per farsi sentire dagli amici, chiedendoli di liberarlo da quell’incubo; ma Maria, conscia che il comportamento del suo ospite era antitelevisivo, annunciò la pubblicità.

“Aiutoo! Liberatemi! Maria mi tiene in ostaggio! Chiamate Maurizio!” e incominciò a correre come un forsennato per lo studio. Si diresse verso le quinte, attraversò lo stretto corridoio dove si trovavano uffici e camerini per divi, giunse all’uscita e spinse il maniglione antipanico oltre il quale era appostato Sandrone, il responsabile della security; fintò di andare a destra e scartò a sinistra evitando il placcaggio di quella montagna umana e dopo pochi metri era fuori dal cancello, si voltò per controllare di non essere seguito e invece del cancello c’era di nuovo quel bar affollato di gente strana e cocktail colorati. Sudato oltre ogni limite della decenza, con l’aria stravolta, entrò e vide Marisol dietro al bancone. La musica era ancora più assordante di come la ricordava, “Marisool!”. Tirò due pugni a casaccio davanti a sé per farsi largo, ma quella gente era come le sabbie mobili, continuava a stringersi davanti a lui impedendogli di proseguire, “Marisoool!!!” riprese più forte ”Marisooool!!!!”…
Sentì uno schiaffo in pieno viso. “Ma cosa urli? Chi è sta Marisol? Sveglia che tocca te!”. Stava seduto sul divano di casa sua, era in corso il consueto torneo di ISS Pro settimanale con i suoi amici. Due di loro armati di birra avevano appena finito la loro partita, la Playstation funzionava benissimo. Aveva sognato tutto: il bar, lo studio televisivo di Maria, Sandrone, De Franceschi, Gago… e soprattutto lei, Marisol. Anche il bacio in ascensore: tutto un sogno. Si alzò dal divano, due gocce di sudore gli scendevano dalle tempie. Si infilò il giubbotto e si avvolse il collo con la sciarpa. “Oh! Tutto a posto? Stai bene? Che stai facendo? Gago ci sei? Tocca a te!”. “No, ragazzi: stasera non ho voglia di giocare, esco a fare due passi, magari hanno aperto qualche locale nuovo…” E, mentre si chiudeva la porta alle spalle, si sentì pervadere da un senso di benessere, di speranza, di ottimismo, di libertà, che non provava ormai da tanto tempo e che, a esser sinceri, non ricordava bene se l’avesse mai provato davvero: si sentiva (di nuovo?) vivo.

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