Tre giorni.
Gli restavano soltanto tre giorni.
Ancora tre giorni e poi… poi sarebbe finito tutto: la fame, le difficoltà monetarie, la vita difficile condotta sino a quel momento: aveva vinto il concorso pubblico per un posto da impiegato negli uffici comunali di quell’elegante città emiliana.
Pensava al vecchio padre, solo, laggiù a Pantelleria: un povero pescatore che gli aveva permesso di studiare all’Università; a quando, con la sua voce roca, gli diceva al telefono: “Non preoccuparti, Biagio, qui è tutto a posto… io sto bene, sì… a lavoro? Al solito… ieri c’è stato mare, perciò oggi c’era poco… la mamma? Sì, sono andato a trovarla ieri…”.
Già, sua madre. Se n’era andata che lui era ancora un bambino, ma se la ricordava perfettamente. Rammentava il suo profumo, le sue carezze. E la sua voce che, ogni sera, lo accompagnava a letto. Donna Lucia era una donna d’altri tempi…
Ripensava alla laurea, alle lacrime del padre, a quanto era felice quel giorno.
Guardava verso il basso, dal finestrino dell’aereo che lo stava portando a destinazione e rifletteva su ciò che gli si parava sotto gli occhi, nella penombra di quella sera di fine Settembre. “Quante luci, laggiù… quante auto… tutti che corrono, s’affannano… mentre io, quassù, fermo e tranquillo, che li osservo”.
Credeva fosse più o meno simile alla sensazione che si ravvisasse dal Paradiso. “Forse è così che gli occhi di Dio si posano sul mondo – seguitava -. Forse è questa la visuale che Nostro Signore ha delle sue creature…”. Poi, improvvisamente, un pensiero lo inquietò: se per lui era così difficile, anzi impossibile, riuscire a osservare bene tutto ciò che, là in fondo, si muoveva, come faceva Dio a occuparsi di tutti noi? Non gli sarebbe venuto difficile, tutta quella gente? Anche solo ascoltarci…
Se ne andava via dalla fame, ma questo nonostante fosse un ottimo motivo per la sua partenza, non lo soddisfaceva del tutto.
Si guardava indietro e non sopportava l’idea di allontanarsi dal mare, aveva sempre vissuto in simbiosi con esso. La mattina, quando poteva, si imbarcava col padre. Gli piaceva il sole, il suo profumo e gli occhi di gioia del suo papà quando la pesca era buona.
Sin da piccolo avrebbe voluto fare il pescatore, sin da piccolo diceva che il suo futuro era il mare, sin da piccolo vedeva il suo vecchio come una sorta di eroe moderno. Ma i suoi sogni erano osteggiati dallo stesso padre che era ben consapevole della dura vita che comportava quella scelta. Non voleva che il figlio sacrificasse la sua vita a quel mostro azzurro che sembrava calmo, ma che in realtà ti consumava piano a piano. E, quando raggiunse il diploma e il padre gli disse che avrebbe avuto piacere che frequentasse l’università, lui acconsentì, anche se avrebbe voluto rimettere a nuovo la loro vecchia barca e ogni giorno navigare in cerca di pesce, ma non ebbe mai il coraggio di dire questo al padre. E fu una vera sorpresa quando, prima di partire per l’Emilia, il padre gli disse che sapeva dei suoi progetti post-diploma e che, secondo lui, sarebbe diventato un bravo pescatore. D’altronde il sangue era lo stesso…
Ripensava a tutto ed era convinto che nonostante la sua nuova vita gli avrebbe dato qualcosa che il mestiere di pescatore non poteva, era ben consapevole che diventava uno come tanti. Ricordava suo padre che laggiù a Pantelleria era considerato il migliore del suo campo, ricordava il rispetto che gli altri gli portavano, i consigli che chiedevano solo a lui e la solidarietà che tutte le famiglie di pescatori gli avevano dato alla morte della madre.
Così le donne dei pescatori, quando il padre stava fuori per molti giorni, gli preparavano il pranzo, la cena e lo trattavano come un loro figlio; gli piaceva tutto ciò, aveva avuto molte mamme nella sua infanzia e tanti padri.
Mentre il solo pensiero di andare in una città sconosciuta e di fare un lavoro dove sarebbe stato considerato uno dei tanti lo preoccupava, lo preoccupava la ricerca di un tetto dove stare e la lontananza dalla compagnia dei suoi paesani, burberi e attaccabrighe, ma con un grande cuore. Si lasciava alle spalle tutto ciò e davanti a lui vedeva una vita sconosciuta.
Fissava immobile il nastro sul quale scorrevano le valigie del volo che l’aveva portato in quella nuova terra. Pensava. Adesso doveva andare in quella pensioncina vicino il centro – non poteva permettersi un hotel – per sistemarsi un attimo. Poi si doveva rinfrescare. E dopo sarebbe uscito a mangiare qualcosa – chissà come sarà la cucina? – ma prima aveva deciso di telefonare a suo padre, per dirgli che era atterrato e che poteva stare tranquillo.
La pensione era davvero piccina, ma a conduzione famigliare e, a una prima impressione, gli sembrava confortevole; certo, dopo una giornata così intensa, avrebbe dormito pure sui sassi… uscito dal bagno con l’asciugamano legato alla vita, si era seduto sul letto della sua stanzetta, rivestito del solo copri-materasso, e si divertiva a “testarlo”, facendoci rimbalzare sopra il suo posteriore. Dopo un paio di quei movimenti sussultori, s’era sdraiato, aveva mollato una sonora scoreggia e, improvvisamente e senza neppure rendersene conto, s’era appisolato.
Mentre sognava di Pantelleria, di sua madre e dei suoi amici gli era sembrato di sentire qualcuno bussare. Dopo un attimo d’incertezza, aveva aperto gli occhi: niente. Tutto taceva; doveva essersi sognato anche quello. Notato che s’erano ormai fatte le nove meno dieci, si era sbarazzato dell’asciugamano con un rapido movimento e stava per iniziare a vestirsi, prima che rischiare di rimanere a digiuno. E, proprio in quel momento, la porta della sua stanza s’era aperta. “Permesso, chiedo scusa, ecco le lenzuola pulite che… OMMIODDIO!”. Era Vania, la figlia dei padroni.
Era una graziosa fanciulla di ventun’anni, dagli occhi nocciola e i capelli castani, lunghi e lisci, che parevano usciti da un quadro per come lucevano. Studiava all’università, facoltà di Scienze della Comunicazione; di tanto in tanto, tra una lezione e un esame, aiutava i suoi alla locanda. Quando sua madre gli aveva detto di salire al primo piano, che c’era un ragazzo sprovvisto di lenzuola, non pensava fosse sprovvisto anche di indumenti intimi…
Dopo un attimo di sbigottimento, si coprì le parti intime con il primo indumento che gli capitò sotto mano: il suo maglione preferito. Vania invece si girò quasi subito di spalle per evitare ulteriori imbarazzi.
“Chiedo scusa – seguitava a giustificarsi lei –, avevo bussato più volte, ma nessuno rispondeva e allora…”.
“Non si preoccupi, signorina, cose che capitano”, replicava lui. E, con fare da vecchio “don Giovanni”, approfittava del momento d’intimità creatasi tra di loro, dicendo: “Non faccia così, suvvia! In fondo. non credo che abbia visto uno spettacolo così orrendo…”
La sfrontatezza del ragazzo faceva sorridere Vania che cercando subito di calmare i suoi bollenti spiriti, sentenziava: “Ho visto anche di meglio…”
Ma guarda questa! Ma come si permette, pensò subito lui... Quella semplice frase lo aveva ferito nel suo orgoglio mascolino.
“Comunque io sono Biagio, piacere”, Vania, fece un inchino, onde evitare di avvicinarsi all’uomo mezzo nudo di fronte a lui.
“Lavori qui?” Che domanda idiota, pensò, certo che lavora qui…
“Che domanda idiota, certo che lavoro qui!”. Stava collezionando una serie di magre figure e l’unica cosa che riuscì a fare era quello di congedare la ragazza.
Vania fu felicissima di togliersi da quella situazione imbarazzante e solo quando lei uscii, Biagio si accorse di quello che aveva fatto.
“Porca troia! Il mio maglione preferito!” Non gli piaceva l’idea che il suo maglione era rimasto avvinghiato alle sue parti intime per tutto quel tempo.
Decise di affrettarsi a scendere e si fece una doccia veloce.
In strada, più avanti, svoltato l’angolo vide Vania che pareva aspettare qualcuno. Le si avvicinò, con l’unico intento di ritemprare il suo orgoglio ferito.
“Cosa fai?” le disse, convinto che il suo fascino mediterraneo sarebbe stato irresistibile per la ragazza.
“Aspetto il mio moroso…”
Biagio annui, pur non sapendo cosa volesse dire la parola moroso. Si accorse del suo significato quando comparì un armadio a muro di due metri che baciò Vania e lanciò a lui un’occhiataccia.
“Questo è il signor Puglisi, un nostro cliente. Ci siamo fermati a chiacchierare”.
“Piacere”, disse l’armadio, mentre stritolava la povera mano di Biagio…
Vania fece un sorriso, salutò e i due si congedarono veloci nelle sera e mentre Biagio contemplava la coppia allontanarsi, cercava d’immaginare le parti intime del tipo paragonandole alle sue…
“Tzè! – ripeteva a sé stesso – ‘Ste donne del Nord non hanno proprio umiltà! Ma che credono? Che tutto sia loro dovuto?”. Non sopportava l’idea d’aver collezionato magre figure una dietro l’altra e pensava che, come prima sera nella sua nuova città, aveva avuto parecchia sfortuna. Nonostante l’arrabbiatura c’era in lui la curiosità di vedere il posto in cui avrebbe iniziato, dal giorno dopo, a condurre la sua vita. S’era deciso a fare un giretto per il centro e, in poco tempo, l’aveva visto quasi per intero: il Duomo, il Battistero, la Piazza, le vie più importanti. E gli piaceva. Di tanto in tanto gli ritornava in mente l’armadio a muro, l’arroganza con cui gli si era presentato e la spocchia con la quale aveva fatto montare Vania sulla propria Mercedes quando stavano per andarsene, sgommandogli praticamente in faccia. “Eh, certo – rimuginava –: c’ha il macchinone, lui…”.
Intanto, poco fuori dalla città, Bruno (questo era il nome dell’armadio a muro) aveva deciso di “parcheggiare”, per il consueto “menage” con Vania. Questa volta, però, la ragazza pareva non aver proprio intenzione di concedersi. “Ma insomma, mi vuoi dire cosa cazzo ti prende stasera?”, sbottava esasperato il gorilla. Vania restava in silenzio.
La faccia nel finestrino, gli occhi ben oltre quel vetro. Così come la mente, attraversata da dieci, cento, mille pensieri, tutti differenti, tutti in un momento: anche stasera vuole la stessa cosa ma che ci faccio qui però mi eccita quando fa il duro non sono una troja vorrei fare l’amore non solo sesso perché mi tratta così domani ho lezione solo due ore che fortuna ma perché penso a quel ragazzo nudo di oggi?
In mezzo a quel marasma, a quello status confusionale, a quella matassa così ingarbugliata che era il suo cervello in quel momento, Vania trovò una motivazione plausibilmente veritiera: “No, niente amore, è solo che domani inizio lo stage in Comune come Addetta Stampa e sono un po’ nervosa. Te l’avevo detto, ricordi?”.
La mattina dopo Biagio si svegliò di buon’ora. Doveva iniziare il lavoro quel giorno e ciò lo elettrizzava.
Sbagliò strada un sacco di volte, nonostante il percorso studiato nella cartina gli era sembrato facile, e rischiò di venire investito un paio di volte da allegre vecchiette in bicicletta. Chiese la strada a quattro passanti, nell’ordine: un inglese che non parlava una parola di italiano, un extracomunitario sul posto da pochi giorni, un vecchio che raccontò che quando era giovane non c’erano tutte queste macchine e un signore già ubriaco di prima mattina…
Nonostante la sveglia mattutina di buon’ora, riuscì ad arrivare in ufficio con 10 minuti di ritardo. Non appena il capoufficio lo vide, disse: “Tu sei quello nuovo?”
“Sì!”
“Oè, nani! Se fai ritardo già il primo giorno, non voglio immaginare cosa farai fra due anni”. Biagio si guardò intorno e pensò “Cu spacchju è ‘stu ‘Nani’? ‘U jucaturi ‘i palluni?”.
Il capoufficio lo mise a sedere sulla sua scrivania e disse: “Ora ti mando qualcuno che ti dice cosa devi fare. Sta buono, eh…” Rimase per ben 2 ore da solo a non far niente, finché arrivò una signora bionda e leggermente soprappeso.
“Tu sei quello nuovo?”
“Sì”
“Allora ’scolta, nano: io vado un attimo a fare la spesa. Sta’ buono, che quando torno ti dico cosa devi fare”.
Biagio si guardò intorno e pensò: “Nano!?!? Ma se sugnu ‘n metru e sittantascingu!”.
Passarono altre tre ore di noia mortale. Vide un sacco di volte il capoufficio vicino alla macchinetta del caffè a discutere di calcio con i colleghi, ma non si azzardò ad alzarsi per fare amicizia.
Ritornò la signora, che smorzò subito la sua felicità dicendogli: “Manca solo un’ora alla fine del turno. Sta’ buono lì, che in un’ora non t’insegno niente.”.
E così Biagio passò l’intera giornata a non far niente e non disse neanche niente, quando sentì dire al capoufficio che domenica prossima la loro squadra doveva andare in Sicilia per i tre punti…
“Per me, non ci sarà partita: i tre punti me li sento già in tasca”. Il capoufficio appariva molto sicuro di sé, ma l’orgoglio e l’amore di Biagio per la sua terra lo portarono a replicare: “Lei pensa? Io non ne sarei così sicuro…”. A quel punto, il gruppetto di persone che attorniava il capo finì di ridere e fece per disperdersi lasciandoli soli, uno di fronte all’altro. Il capo squadrò Biagio per bene, poi gli disse: “Sa, Puglisi… lei è qui solo da un giorno e forse, proprio per questo motivo, ci sono molte cose che non comprende ancora nella giusta maniera…”. La risposta del giovane fu pronta e secca: “Signor Direttore, se la sua squadra dovesse vincere, sarò ben lieto d’offrirle il caffè, lunedì prossimo”. E il capo: “Già… e se, malauguratamente, vincesse la sua?”.
Non sapeva più che dire. Era chiaro che s’era cacciato in trappola con le sue stesse mani. Proprio quando tutto sembrava perduto, dal corridoio Biagio vide arrivare Vania. Col suo incedere lesto ma elegante, la ragazza stava uscendo dagli uffici per tornare a casa. Lo stupore nell’incontrarsi fu grande per entrambi.
“Ciao! Che ci fai qui?”, esordì lei?
“Ci lavoro!”, rispose lui.
“Parola grossa…”, intervenne il capo e fece per ritirarsi nel suo ufficio.
“Non m’avevi detto che lavoravi qui…”, riprese Vania.
“Eh, tu non me l’hai chiesto!”, seguitò Biagio.
“Bè, ora è meglio che vada o arriverò tardi alla locanda – disse Vania un po’ imbarazzata – Il mio ragazzo dovrebbe già esser giù ad aspettarmi…”.
Stava per chiederle se poteva accompagnarla. Stava per avanzarle la proposta d’uscire una sera. Udite le parole “ragazzo” e “aspettarmi” la sola cosa che stava per riuscirgli era imprecare. Vania lo salutò e uscì fuori, ad attendere l’armadio a muro con la sua Mercedes.
Dalla finestra dell’ufficio vide allontanarsi Vania in compagnia dell’armadio a due ante. “Bel bocconcino!” disse il capoufficio, che si era insinuato dietro Biagio senza farsene accorgere”. Biagio saltò per aria e disse in dialetto “Matri, cchi scantu!”. Il capoufficio sorrise e gli disse: “Venga con me, che le offro un bianchetto!”
Non sapeva cos’era un bianchetto (sulle prime pensò alla scolorina), ma gli pareva scortese rispondere di no e insieme andarono in un bar lì vicino. Il capoufficio bevve ben quattro bicchieri di vino (sì, perché da quelle parti la Malvasia veniva anche chiamata “Bianchetto”), Biagio si fermò a due, ma era già brillo. Non beveva spesso.
Lasciato il bar il nostro eroe tornò in albergo; nella Hall (anche se definire “hall” quella stanzetta di 2 metri per 2 era un’esagerazione) incontrò Vania… Si guardò intorno e non vide armadi, così approfittò del suo stato alticcio per fare due chiacchiere con lei e testare il suo fascino mediterraneo.
“Allora? Il tuo ragazzo dov’è?”.
“Se ne andato. Deve organizzare la trasferta in Sicilia”.
“Trasferta? Sicilia?”.
“Sì, è capo ultrà della squadra della nostra città.”.
“E tu non vai con lui?”
“A me il calcio fa schifo…”
“Ahi – pensò Biagio – c’è disaccordo…”, non immaginando che per una coppia è anche normale non avere degli interessi in comune.
“Quindi ti lascia sola sabato?”
“Lo sai meglio di me che la Sicilia non è dietro l’angolo”.
Cominciava a piacerle quel fare un po’ scontroso, cominciava a piacerle quella ragazza. Doveva provarci. Voleva provarci.
Vania sin dall’inizio si immaginava dove il giovane voleva andare a “parare” e a dir il vero un po’ cominciava a stargli simpatico…
“Allora cosa fai sabato sera? No, perché io sono libero”, disse Biagio, non prima di essersi assicurato per l’ennesima volta che “l’armadio” non stesse in giro…
Vania sorrise e, inaspettatamente sia per lui che per lei, rispose: “Ma hai bevuto?”
“Se ti dico sì, ci esci con me?”, disse Biagio in modo sciocco. Lei a quel punto gli si avvicinò fino a fermarsi a tre centimetri dal suo naso; estrasse un fazzolettino dalla tasca e, con fare dolce, dopo avergli scostato i lunghi capelli lisci dalle tempie, gli asciugò la fronte perlata per il sudore. Essendo abbastanza vicina da percepire il respiro del ragazzo, fece per annusargli l’alito. E ne ravvisò il tasso alcolico, manco fosse stata uno di quegli apparecchi per i test che la polizia esegue al sabato sera.
Restò a quella distanza per qualche secondo ancora. Alzò lo sguardo, puntando i suoi occhioni dritti in quelli di Biagio e, con aria scherzosa e un po’ dimessa, portando le braccia dietro la schiena rispose: “Signor Puglisi, non uscirei con un “terrone” neppure se mi giurasse che fosse completamente astemio”. E sorrise.
Il vino gridava vendetta e Biagio iniziava a barcollare. Si sentiva la testa scoppiare, le gambe molli e le palpebre pesanti. Per continuare a reggersi in piedi, dovette iniziare a farsi forza anche con le braccia, poggiando le spugnate mani sulle proprie ginocchia; ma il sudore era tale che i palmi gli scivolarono e rischiò seriamente di finire a terra. Fu Vania che, prontamente, glielo evitò. E, a quel punto, pensò fosse meglio portarlo in camera per farlo stendere un po’ sul letto a riposare.
Una volta seduto sul materasso, il giovane si lasciò andare, crollando miseramente all’indietro con le spalle. Amorevolmente, Vania gli tolse le lucide scarpe nere e gli adagiò le gambe sul morbido talamo. A Biagio girava tutta la stanza. Fissava il soffitto e gli pareva d’essere sul galeone dei pirati di Gardaland. Solo che lui non c’era mai stato, a Gardaland.
La ragazza aprì l’armadio e vi estrasse una coperta leggera, di quelle di cotone; la adagiò con dolcezza sulle gambe di Biagio, preoccupandosi di tenergli al caldo i piedi e infine, con passo leggiadro, quasi insonorizzato, afferrò la maniglia della porta con la mano destra e spense la luce con la sinistra. Mentre si tirava la porta dietro le spalle, udì la voce del ragazzo, strascicata e flemmatica: “Io non ti ci lascerei sola alla domenica, sai Vania… per una partita di pallone…”. Poi più nulla.
Sorrise. Guardò dentro la stanza da quello spiraglio di luce che l’uscio socchiuso nel buio della stanza concedeva alla sua vista. E sorrise ancora, un’ultima volta, prima di chiudere la porta.
La mattina dopo Biagio arrivò a lavoro in ritardo di mezz’ora, ma nessuno se ne accorse. Gli faceva male la testa e aveva solo voglia di dormire.
La signora bionda del giorno prima appena lo vide disse: “Oggi non scappi, ti faccio affiancamento”, e detto questo uscì a prendere un caffè.
Passò un’ora prima che lei tornò e Biagio con fare simpatico le disse: “E il caffè come l’ha preso? LUNGO?”.
“Signor Puglisi non faccia lo spiritoso!”, rispose scocciata la signora bionda. Prese una sedia, si sedette accanto a lui e cominciò a spiegargli i suoi compiti.
Biagio non capiva niente di quello che diceva la signora e la testa gli doleva sempre più, ma stoicamente cercava di darsi un aspetto quasi professionale.
Dopo 15 minuti la signora bionda si accorse del suo stato e rinunciò ad ogni insegnamento: “Puglisi, mi pare che oggi sto perdendo tempo con lei. Rimandiamo tutto a domani”. E detto questo lo abbandonò a sé stesso.
Era contento di rimanere solo e decise di alzarsi e andare a prendere un caffè, ma non appena fece per alzarsi, Vania entrò nell’ufficio.
“Allora? Come va?”
Biagio si bloccò e rimase in una strana posizione: con il sedere leggermente scostato dalla sedia, la schiena piegata e le mani appoggiate nella scrivania. Passarono dei secondi interminabili. Poi disse: “Bene…”
“Bene? E come mai hai quella posizione?”
Biagio recuperò subito una posizione più consona e disse: “Quale posizione?”
“Lasciamo perdere…” e detto questo si sedette nella sedia che fu della signora bionda.
I due così, rotto il ghiaccio, cominciarono a chiacchierare allegramente. Ogni secondo che passava Biagio si invaghiva sempre più di quella ragazza. Era simpatica, intelligente e molto bella.
Dal canto suo anche Vania cominciava ad interessarsi a quello strano ragazzo, gli sembrava dolce e sensibile, cosa che non aveva mai visto in un uomo, specialmente nel suo attuale ragazzo.
Così, molto piacevolmente arrivò la fine del turno, i due videro assieme l’orologio e Vania disse: “E’ ora che andiamo”. Biagio annui e si alzò dalla sedia e nel mentre che si alzò si affacciò il capoufficio e disse sorridendo: “Vedo proprio che si lavora! Allora Puglisi, viene a prendere un bianchetto?”
Un brivido di terrore lo attraversò lungo la schiena.
Che fare? Declinare l’invito del capo (proprio ora che l’aveva preso a simpatia) o rischiare di fare un’altra figuraccia con Vania? Biagio era in preda al panico. Poi, come avviene spesso in questi casi-limite, l’ansia riesce a illuminarti la mente. Con fare rapido, Biagio si girò verso Vania e le disse “Scusami un attimo”; poi si diresse verso il suo capo, gli mise una mano sulla spalla e gli sussurrò da distanza ravvicinata “Signor Dalmazzi, le spiace se rimandiamo a lunedì? Avrei un impegno con la signorina e…” .
Non ebbe nemmeno bisogno di terminare la frase che il capo lo guardò rispondendogli “Aaah, ho capito… bravo Puglisi! Lei sì che ha capito come ambientarsi! Poteva dirmelo subito che c’aveva della figa per le mani! Certo che rimandiamo a lunedì… e mi raccomando: gli faccia sentire di che pasta sono fatti gli uomini del sud! Eh! Eh!”. Detto questo, Dalmazzi gli diede due belle pacche sulle spalle, salutò entrambi i ragazzi e se ne andò.
Mentre scendevano giù per le scale, Vania chiese a Biagio cosa mai si fossero detti lui e il capo poco prima; la risposta del ragazzo fu uno di quei classici “Niente, niente…” buoni per tutte le occasioni.
Giunti all’uscita, Biagio si fermò, guardò la ragazza e disse: “Senti, io volevo… volevo ringraziarti per ieri sera… sai, non conosco nessuno, qui… il capo m’ha invitato a bere con lui… non ci sono abituato e così… ho esagerato…”. Vania lo guardò e rispose: “Figurati. Diciamo che non è stato peggio di quando t’ho visto la prima volta”. Risero entrambi.
Ma la loro allegria fu interrotta dallo strombazzare di clacson della Mercedes di Bruno. “Ah, allora torni con lui…” disse sconsolato Biagio. “Sì – ammise Vania – sai, domani parte per la trasferta e non ci vedremo fino a lunedì, perciò…”. Non terminò la frase.
I due si salutarono molto freddamente e con un po’ di magone. Biagio vide sfrecciargli sotto al naso la Mercedes e se ne tornò alla locanda da solo.
Nel mentre si avviava alla locanda venne fermato da una voce: “Allora Puglisi! La credevo con la ragazza?”. Era il capoufficio che con fare curioso aveva visto tutta la scena.
“Lei è dappertutto, signor Dalmazzi” disse Biagio sorridendo.
“Mi devo preoccupare dei miei sottoposti, no?” disse Dalmazzi sorridendo, “comunque lo conosco quello…”
“Chi?”
“Il padrone della Mercedes. E’ Bruno, il capo dei nostri gloriosi ultras”
“No!”
“Sì, quelli che domenica vi faranno quattro gol…”
“Lasciamo perdere il calcio…”
“Se vuole l’accompagno al club degli ultras. E’ qui vicino. Potrà parlare con il suo contendente…”
Biagio, voleva dire no. D’altronde cosa avrebbe detto a quell’armadio a quattro ante? Ma il capoufficio lo prese sottobraccio e lo accompagnò sin davanti al club ultrà.
“Questo è il luogo. Io non entro perché vado a prendere un bianchetto al bar di fronte. Mi raccomando tenga alto l’onore del nostro ufficio!”
Biagio, non sapeva cosa stava facendo lì, ma senza accorgersene era già dentro a quel club. All’interno trovò una serie di persone poco raccomandabili. E in fondo alla stanza vide l’armadio a quattro ante che dava indicazioni a due ragazzi intenti a creare uno striscione.
L’armadio alzò lo sguardo e disse: “Buonasera signor Puglisi, come mai qui?” Biagio non rispose… E l’armadio approfittò per continuare a parlare: “Ragazzi! Questo qui è siciliano e uno di quelli che domenica prenderà quattro gol, senza storie.”
Il campanilismo del nostro eroe uscì con tutta la sua forza e pur essendo circondato da tipi poco raccomandabili disse: “Senti, con quella squadra che vi ritrovate penso proprio che pagherete dazio.”
Ci fu una risata fragorosa e di scherno verso l’ospite. L’armadio zittì tutti e disse: “Non perderemmo con voi terroni neanche se facessimo scendere in campo la primavera!” Altra risata. “Potrei giocarmi la donna!”
Gli occhi di Biagio si illuminarono e in senso di sfida disse: “Allora se domenica vince il Palermo, mi concedi di uscire con la tua donna”.
L’armadio, visto l’andamento della sua squadra in quelle ultime domeniche era sicuro di una facile vittoria e disse: “Quando si tratta di umiliare gente come te, sono ben contento di giocarmi la mia donna…” Ci fu un acclamazione dei presenti.
“Allora?” disse Biagio “affare fatto?”
“Affare fatto!” replicò l’armadio che incuteva sempre più timore al nostro impiegato statale siciliano.
Piccoli, su azione personale.
Ameori, di testa su calcio d’angolo.
Parzegli, in fotocopia all’azione precedente.
Bresciera, su calcio di rigore.
Per gli ospiti, rete della bandiera di Gasparro, con un secco destro da fuori area.
Risultato finale: 4 a 1 per la squadra siciliana.
Biagio aveva seguito la partita al bar in compagnia di Dalmazzi che, a ogni gol subito dalla sua squadra, annegava il dispiacere in un bianchetto. Toccò al ragazzo accompagnarlo a casa.
Tornato alla locanda, si ritrovò di fronte una scena che non avrebbe mai voluto vedere: in una delle due poltroncine della hall c’era Vania che, con le mani sul volto, singhiozzava.
“Vania! Cos’è successo? Cos’hai?”, le chiese Biagio con fare apprensivo mentre, accorso immediatamente da lei, tentava di capirci qualcosa.
“Sei uno schifoso!”, gridò lei.
“Io? Ma che dici?”, chiese Biagio spaesato e colto di sorpresa.
“Bruno mi ha appena raccontato tutto, al telefono! – disse Vania con veemenza – E così, io dovrei uscire con te per una scommessa, eh? Al diavolo!”
“Ma… ma Vania… aspetta, lascia che ti spieghi…”, balbettò Biagio.
“Non voglio sapere nulla – lo interruppe lei – Per quel che mi riguarda, mi fate schifo! Tutti e due! E ora, vattene!”.
“Ma Vania, io…”, tentò ancora di prender parola Biagio.
“Vatteneeee!”, urlò isterica lei.
Biagio si chiuse in camera a riflettere. Era chiaro che l’aveva fatta grossa: quando accetti certe sfide da persone moralmente “basse”, non puoi non scivolare in basso anche tu. E a Biagio era accaduto proprio così.
Il giorno dopo, appena uscito dall’ufficio, iniziò a cercare casa: pagare un B&B iniziava a pesargli e poi voleva sistemarsi definitivamente.
In una settimana la trovò: in centro, a pochi minuti di strada dal Municipio: un bilocale arredato e con vista sul Duomo. In quel lasso di tempo, non incontrò più Vania, né Bruno.
Quel giorno Biagio si trattenne di più al lavoro, per terminare alcune pratiche.
Dalmazzi lo vide chino sulla scrivania a lavorare e disse: “Allora!? Puglisi, ancora a lavoro? Dai vieni che andiamo in un localino nuovo che mi hanno detto che ha un buon vino!”
Biagio alzò la testa dal computer e rispose: “Capo… Lasciamo perdere… L’ultima volta mi ha fatto ubriacare”.
“In questo ufficio non voglio gente astemia! Dai, vieni con me!”, si avvicinò lo fece alzare, se lo mise sottobraccio e a forza lo portò nel locale.
Si sedettero assieme in un tavolino e ordinarono due bianchetti, Dalmazzi bevve il suo tutto d’un fiato, Biagio sorseggiava lentamente. Era triste e Dalmazzi se ne accorse subito: “E’ da una settimana che non sorridi. Mi vuoi dire cosa è successo?”
“Niente di importante.”
“Allora finisci il tuo bianchetto che ci facciamo un altro giro” Si voltò in cerca di un cameriere, ma non trovò nessuno, “Il locale è bello, ma il servizio lascia a desiderare…” e dicendo così si alzò a recuperare un cameriere.
Proprio mentre Dalmazzi, se ne andò, Biagio si accorse di una presenza in quel locale e vicino al proprio tavolo. Era Bruno, l’armadio a quattro ante, che con fare minaccioso si avvicinava al tavolo.
Biagio si accorse subito dell’armadio. “Questo ce l’ha con me…”. Cominciava ad avere paura. Non era molto bravo a fare a pugni e quando Bruno si fermò vicino a lui temette il peggio. I due ormai erano l’uno contro l’altro. La rissa stava per iniziare.
Biagio recuperando un po’ di coraggio, alzò la testa e guardò in faccia l’armadio, che proprio in quel momento, con un fil di voce che poco si adattava ad un uomo della sua stazza, disse: “A te che ha detto?”. E mentre diceva questo si sedette e mise la testa tra le mani…
Biagio quasi impietosito gli diede una pacca sulla spalla per incoraggiarlo e disse: “Che sono uno schifoso…”
“Anche a me.”
I due rimasero qualche secondo in silenzio, poi Biagio disse: “Beh, ha ragione…”
Bruno si voltò verso il nostro eroe e con un sorriso amaro disse: “Effettivamente…”
Nel mentre Dalmazzi, che ben nascosto aveva seguito tutta la scena si sedette anche lui. Il cameriere si avvicinò: “Cosa vi porto?”
Dalmazzi osservò bene i due ragazzi, distrutti, si rigirò verso il cameriere: “Per me un bianchetto, per i due ragazzi uno schotch… Doppio!”.
Gli restavano soltanto tre giorni.
Ancora tre giorni e poi… poi sarebbe finito tutto: la fame, le difficoltà monetarie, la vita difficile condotta sino a quel momento: aveva vinto il concorso pubblico per un posto da impiegato negli uffici comunali di quell’elegante città emiliana.
Pensava al vecchio padre, solo, laggiù a Pantelleria: un povero pescatore che gli aveva permesso di studiare all’Università; a quando, con la sua voce roca, gli diceva al telefono: “Non preoccuparti, Biagio, qui è tutto a posto… io sto bene, sì… a lavoro? Al solito… ieri c’è stato mare, perciò oggi c’era poco… la mamma? Sì, sono andato a trovarla ieri…”.
Già, sua madre. Se n’era andata che lui era ancora un bambino, ma se la ricordava perfettamente. Rammentava il suo profumo, le sue carezze. E la sua voce che, ogni sera, lo accompagnava a letto. Donna Lucia era una donna d’altri tempi…
Ripensava alla laurea, alle lacrime del padre, a quanto era felice quel giorno.
Guardava verso il basso, dal finestrino dell’aereo che lo stava portando a destinazione e rifletteva su ciò che gli si parava sotto gli occhi, nella penombra di quella sera di fine Settembre. “Quante luci, laggiù… quante auto… tutti che corrono, s’affannano… mentre io, quassù, fermo e tranquillo, che li osservo”.
Credeva fosse più o meno simile alla sensazione che si ravvisasse dal Paradiso. “Forse è così che gli occhi di Dio si posano sul mondo – seguitava -. Forse è questa la visuale che Nostro Signore ha delle sue creature…”. Poi, improvvisamente, un pensiero lo inquietò: se per lui era così difficile, anzi impossibile, riuscire a osservare bene tutto ciò che, là in fondo, si muoveva, come faceva Dio a occuparsi di tutti noi? Non gli sarebbe venuto difficile, tutta quella gente? Anche solo ascoltarci…
Se ne andava via dalla fame, ma questo nonostante fosse un ottimo motivo per la sua partenza, non lo soddisfaceva del tutto.
Si guardava indietro e non sopportava l’idea di allontanarsi dal mare, aveva sempre vissuto in simbiosi con esso. La mattina, quando poteva, si imbarcava col padre. Gli piaceva il sole, il suo profumo e gli occhi di gioia del suo papà quando la pesca era buona.
Sin da piccolo avrebbe voluto fare il pescatore, sin da piccolo diceva che il suo futuro era il mare, sin da piccolo vedeva il suo vecchio come una sorta di eroe moderno. Ma i suoi sogni erano osteggiati dallo stesso padre che era ben consapevole della dura vita che comportava quella scelta. Non voleva che il figlio sacrificasse la sua vita a quel mostro azzurro che sembrava calmo, ma che in realtà ti consumava piano a piano. E, quando raggiunse il diploma e il padre gli disse che avrebbe avuto piacere che frequentasse l’università, lui acconsentì, anche se avrebbe voluto rimettere a nuovo la loro vecchia barca e ogni giorno navigare in cerca di pesce, ma non ebbe mai il coraggio di dire questo al padre. E fu una vera sorpresa quando, prima di partire per l’Emilia, il padre gli disse che sapeva dei suoi progetti post-diploma e che, secondo lui, sarebbe diventato un bravo pescatore. D’altronde il sangue era lo stesso…
Ripensava a tutto ed era convinto che nonostante la sua nuova vita gli avrebbe dato qualcosa che il mestiere di pescatore non poteva, era ben consapevole che diventava uno come tanti. Ricordava suo padre che laggiù a Pantelleria era considerato il migliore del suo campo, ricordava il rispetto che gli altri gli portavano, i consigli che chiedevano solo a lui e la solidarietà che tutte le famiglie di pescatori gli avevano dato alla morte della madre.
Così le donne dei pescatori, quando il padre stava fuori per molti giorni, gli preparavano il pranzo, la cena e lo trattavano come un loro figlio; gli piaceva tutto ciò, aveva avuto molte mamme nella sua infanzia e tanti padri.
Mentre il solo pensiero di andare in una città sconosciuta e di fare un lavoro dove sarebbe stato considerato uno dei tanti lo preoccupava, lo preoccupava la ricerca di un tetto dove stare e la lontananza dalla compagnia dei suoi paesani, burberi e attaccabrighe, ma con un grande cuore. Si lasciava alle spalle tutto ciò e davanti a lui vedeva una vita sconosciuta.
Fissava immobile il nastro sul quale scorrevano le valigie del volo che l’aveva portato in quella nuova terra. Pensava. Adesso doveva andare in quella pensioncina vicino il centro – non poteva permettersi un hotel – per sistemarsi un attimo. Poi si doveva rinfrescare. E dopo sarebbe uscito a mangiare qualcosa – chissà come sarà la cucina? – ma prima aveva deciso di telefonare a suo padre, per dirgli che era atterrato e che poteva stare tranquillo.
La pensione era davvero piccina, ma a conduzione famigliare e, a una prima impressione, gli sembrava confortevole; certo, dopo una giornata così intensa, avrebbe dormito pure sui sassi… uscito dal bagno con l’asciugamano legato alla vita, si era seduto sul letto della sua stanzetta, rivestito del solo copri-materasso, e si divertiva a “testarlo”, facendoci rimbalzare sopra il suo posteriore. Dopo un paio di quei movimenti sussultori, s’era sdraiato, aveva mollato una sonora scoreggia e, improvvisamente e senza neppure rendersene conto, s’era appisolato.
Mentre sognava di Pantelleria, di sua madre e dei suoi amici gli era sembrato di sentire qualcuno bussare. Dopo un attimo d’incertezza, aveva aperto gli occhi: niente. Tutto taceva; doveva essersi sognato anche quello. Notato che s’erano ormai fatte le nove meno dieci, si era sbarazzato dell’asciugamano con un rapido movimento e stava per iniziare a vestirsi, prima che rischiare di rimanere a digiuno. E, proprio in quel momento, la porta della sua stanza s’era aperta. “Permesso, chiedo scusa, ecco le lenzuola pulite che… OMMIODDIO!”. Era Vania, la figlia dei padroni.
Era una graziosa fanciulla di ventun’anni, dagli occhi nocciola e i capelli castani, lunghi e lisci, che parevano usciti da un quadro per come lucevano. Studiava all’università, facoltà di Scienze della Comunicazione; di tanto in tanto, tra una lezione e un esame, aiutava i suoi alla locanda. Quando sua madre gli aveva detto di salire al primo piano, che c’era un ragazzo sprovvisto di lenzuola, non pensava fosse sprovvisto anche di indumenti intimi…
Dopo un attimo di sbigottimento, si coprì le parti intime con il primo indumento che gli capitò sotto mano: il suo maglione preferito. Vania invece si girò quasi subito di spalle per evitare ulteriori imbarazzi.
“Chiedo scusa – seguitava a giustificarsi lei –, avevo bussato più volte, ma nessuno rispondeva e allora…”.
“Non si preoccupi, signorina, cose che capitano”, replicava lui. E, con fare da vecchio “don Giovanni”, approfittava del momento d’intimità creatasi tra di loro, dicendo: “Non faccia così, suvvia! In fondo. non credo che abbia visto uno spettacolo così orrendo…”
La sfrontatezza del ragazzo faceva sorridere Vania che cercando subito di calmare i suoi bollenti spiriti, sentenziava: “Ho visto anche di meglio…”
Ma guarda questa! Ma come si permette, pensò subito lui... Quella semplice frase lo aveva ferito nel suo orgoglio mascolino.
“Comunque io sono Biagio, piacere”, Vania, fece un inchino, onde evitare di avvicinarsi all’uomo mezzo nudo di fronte a lui.
“Lavori qui?” Che domanda idiota, pensò, certo che lavora qui…
“Che domanda idiota, certo che lavoro qui!”. Stava collezionando una serie di magre figure e l’unica cosa che riuscì a fare era quello di congedare la ragazza.
Vania fu felicissima di togliersi da quella situazione imbarazzante e solo quando lei uscii, Biagio si accorse di quello che aveva fatto.
“Porca troia! Il mio maglione preferito!” Non gli piaceva l’idea che il suo maglione era rimasto avvinghiato alle sue parti intime per tutto quel tempo.
Decise di affrettarsi a scendere e si fece una doccia veloce.
In strada, più avanti, svoltato l’angolo vide Vania che pareva aspettare qualcuno. Le si avvicinò, con l’unico intento di ritemprare il suo orgoglio ferito.
“Cosa fai?” le disse, convinto che il suo fascino mediterraneo sarebbe stato irresistibile per la ragazza.
“Aspetto il mio moroso…”
Biagio annui, pur non sapendo cosa volesse dire la parola moroso. Si accorse del suo significato quando comparì un armadio a muro di due metri che baciò Vania e lanciò a lui un’occhiataccia.
“Questo è il signor Puglisi, un nostro cliente. Ci siamo fermati a chiacchierare”.
“Piacere”, disse l’armadio, mentre stritolava la povera mano di Biagio…
Vania fece un sorriso, salutò e i due si congedarono veloci nelle sera e mentre Biagio contemplava la coppia allontanarsi, cercava d’immaginare le parti intime del tipo paragonandole alle sue…
“Tzè! – ripeteva a sé stesso – ‘Ste donne del Nord non hanno proprio umiltà! Ma che credono? Che tutto sia loro dovuto?”. Non sopportava l’idea d’aver collezionato magre figure una dietro l’altra e pensava che, come prima sera nella sua nuova città, aveva avuto parecchia sfortuna. Nonostante l’arrabbiatura c’era in lui la curiosità di vedere il posto in cui avrebbe iniziato, dal giorno dopo, a condurre la sua vita. S’era deciso a fare un giretto per il centro e, in poco tempo, l’aveva visto quasi per intero: il Duomo, il Battistero, la Piazza, le vie più importanti. E gli piaceva. Di tanto in tanto gli ritornava in mente l’armadio a muro, l’arroganza con cui gli si era presentato e la spocchia con la quale aveva fatto montare Vania sulla propria Mercedes quando stavano per andarsene, sgommandogli praticamente in faccia. “Eh, certo – rimuginava –: c’ha il macchinone, lui…”.
Intanto, poco fuori dalla città, Bruno (questo era il nome dell’armadio a muro) aveva deciso di “parcheggiare”, per il consueto “menage” con Vania. Questa volta, però, la ragazza pareva non aver proprio intenzione di concedersi. “Ma insomma, mi vuoi dire cosa cazzo ti prende stasera?”, sbottava esasperato il gorilla. Vania restava in silenzio.
La faccia nel finestrino, gli occhi ben oltre quel vetro. Così come la mente, attraversata da dieci, cento, mille pensieri, tutti differenti, tutti in un momento: anche stasera vuole la stessa cosa ma che ci faccio qui però mi eccita quando fa il duro non sono una troja vorrei fare l’amore non solo sesso perché mi tratta così domani ho lezione solo due ore che fortuna ma perché penso a quel ragazzo nudo di oggi?
In mezzo a quel marasma, a quello status confusionale, a quella matassa così ingarbugliata che era il suo cervello in quel momento, Vania trovò una motivazione plausibilmente veritiera: “No, niente amore, è solo che domani inizio lo stage in Comune come Addetta Stampa e sono un po’ nervosa. Te l’avevo detto, ricordi?”.
La mattina dopo Biagio si svegliò di buon’ora. Doveva iniziare il lavoro quel giorno e ciò lo elettrizzava.
Sbagliò strada un sacco di volte, nonostante il percorso studiato nella cartina gli era sembrato facile, e rischiò di venire investito un paio di volte da allegre vecchiette in bicicletta. Chiese la strada a quattro passanti, nell’ordine: un inglese che non parlava una parola di italiano, un extracomunitario sul posto da pochi giorni, un vecchio che raccontò che quando era giovane non c’erano tutte queste macchine e un signore già ubriaco di prima mattina…
Nonostante la sveglia mattutina di buon’ora, riuscì ad arrivare in ufficio con 10 minuti di ritardo. Non appena il capoufficio lo vide, disse: “Tu sei quello nuovo?”
“Sì!”
“Oè, nani! Se fai ritardo già il primo giorno, non voglio immaginare cosa farai fra due anni”. Biagio si guardò intorno e pensò “Cu spacchju è ‘stu ‘Nani’? ‘U jucaturi ‘i palluni?”.
Il capoufficio lo mise a sedere sulla sua scrivania e disse: “Ora ti mando qualcuno che ti dice cosa devi fare. Sta buono, eh…” Rimase per ben 2 ore da solo a non far niente, finché arrivò una signora bionda e leggermente soprappeso.
“Tu sei quello nuovo?”
“Sì”
“Allora ’scolta, nano: io vado un attimo a fare la spesa. Sta’ buono, che quando torno ti dico cosa devi fare”.
Biagio si guardò intorno e pensò: “Nano!?!? Ma se sugnu ‘n metru e sittantascingu!”.
Passarono altre tre ore di noia mortale. Vide un sacco di volte il capoufficio vicino alla macchinetta del caffè a discutere di calcio con i colleghi, ma non si azzardò ad alzarsi per fare amicizia.
Ritornò la signora, che smorzò subito la sua felicità dicendogli: “Manca solo un’ora alla fine del turno. Sta’ buono lì, che in un’ora non t’insegno niente.”.
E così Biagio passò l’intera giornata a non far niente e non disse neanche niente, quando sentì dire al capoufficio che domenica prossima la loro squadra doveva andare in Sicilia per i tre punti…
“Per me, non ci sarà partita: i tre punti me li sento già in tasca”. Il capoufficio appariva molto sicuro di sé, ma l’orgoglio e l’amore di Biagio per la sua terra lo portarono a replicare: “Lei pensa? Io non ne sarei così sicuro…”. A quel punto, il gruppetto di persone che attorniava il capo finì di ridere e fece per disperdersi lasciandoli soli, uno di fronte all’altro. Il capo squadrò Biagio per bene, poi gli disse: “Sa, Puglisi… lei è qui solo da un giorno e forse, proprio per questo motivo, ci sono molte cose che non comprende ancora nella giusta maniera…”. La risposta del giovane fu pronta e secca: “Signor Direttore, se la sua squadra dovesse vincere, sarò ben lieto d’offrirle il caffè, lunedì prossimo”. E il capo: “Già… e se, malauguratamente, vincesse la sua?”.
Non sapeva più che dire. Era chiaro che s’era cacciato in trappola con le sue stesse mani. Proprio quando tutto sembrava perduto, dal corridoio Biagio vide arrivare Vania. Col suo incedere lesto ma elegante, la ragazza stava uscendo dagli uffici per tornare a casa. Lo stupore nell’incontrarsi fu grande per entrambi.
“Ciao! Che ci fai qui?”, esordì lei?
“Ci lavoro!”, rispose lui.
“Parola grossa…”, intervenne il capo e fece per ritirarsi nel suo ufficio.
“Non m’avevi detto che lavoravi qui…”, riprese Vania.
“Eh, tu non me l’hai chiesto!”, seguitò Biagio.
“Bè, ora è meglio che vada o arriverò tardi alla locanda – disse Vania un po’ imbarazzata – Il mio ragazzo dovrebbe già esser giù ad aspettarmi…”.
Stava per chiederle se poteva accompagnarla. Stava per avanzarle la proposta d’uscire una sera. Udite le parole “ragazzo” e “aspettarmi” la sola cosa che stava per riuscirgli era imprecare. Vania lo salutò e uscì fuori, ad attendere l’armadio a muro con la sua Mercedes.
Dalla finestra dell’ufficio vide allontanarsi Vania in compagnia dell’armadio a due ante. “Bel bocconcino!” disse il capoufficio, che si era insinuato dietro Biagio senza farsene accorgere”. Biagio saltò per aria e disse in dialetto “Matri, cchi scantu!”. Il capoufficio sorrise e gli disse: “Venga con me, che le offro un bianchetto!”
Non sapeva cos’era un bianchetto (sulle prime pensò alla scolorina), ma gli pareva scortese rispondere di no e insieme andarono in un bar lì vicino. Il capoufficio bevve ben quattro bicchieri di vino (sì, perché da quelle parti la Malvasia veniva anche chiamata “Bianchetto”), Biagio si fermò a due, ma era già brillo. Non beveva spesso.
Lasciato il bar il nostro eroe tornò in albergo; nella Hall (anche se definire “hall” quella stanzetta di 2 metri per 2 era un’esagerazione) incontrò Vania… Si guardò intorno e non vide armadi, così approfittò del suo stato alticcio per fare due chiacchiere con lei e testare il suo fascino mediterraneo.
“Allora? Il tuo ragazzo dov’è?”.
“Se ne andato. Deve organizzare la trasferta in Sicilia”.
“Trasferta? Sicilia?”.
“Sì, è capo ultrà della squadra della nostra città.”.
“E tu non vai con lui?”
“A me il calcio fa schifo…”
“Ahi – pensò Biagio – c’è disaccordo…”, non immaginando che per una coppia è anche normale non avere degli interessi in comune.
“Quindi ti lascia sola sabato?”
“Lo sai meglio di me che la Sicilia non è dietro l’angolo”.
Cominciava a piacerle quel fare un po’ scontroso, cominciava a piacerle quella ragazza. Doveva provarci. Voleva provarci.
Vania sin dall’inizio si immaginava dove il giovane voleva andare a “parare” e a dir il vero un po’ cominciava a stargli simpatico…
“Allora cosa fai sabato sera? No, perché io sono libero”, disse Biagio, non prima di essersi assicurato per l’ennesima volta che “l’armadio” non stesse in giro…
Vania sorrise e, inaspettatamente sia per lui che per lei, rispose: “Ma hai bevuto?”
“Se ti dico sì, ci esci con me?”, disse Biagio in modo sciocco. Lei a quel punto gli si avvicinò fino a fermarsi a tre centimetri dal suo naso; estrasse un fazzolettino dalla tasca e, con fare dolce, dopo avergli scostato i lunghi capelli lisci dalle tempie, gli asciugò la fronte perlata per il sudore. Essendo abbastanza vicina da percepire il respiro del ragazzo, fece per annusargli l’alito. E ne ravvisò il tasso alcolico, manco fosse stata uno di quegli apparecchi per i test che la polizia esegue al sabato sera.
Restò a quella distanza per qualche secondo ancora. Alzò lo sguardo, puntando i suoi occhioni dritti in quelli di Biagio e, con aria scherzosa e un po’ dimessa, portando le braccia dietro la schiena rispose: “Signor Puglisi, non uscirei con un “terrone” neppure se mi giurasse che fosse completamente astemio”. E sorrise.
Il vino gridava vendetta e Biagio iniziava a barcollare. Si sentiva la testa scoppiare, le gambe molli e le palpebre pesanti. Per continuare a reggersi in piedi, dovette iniziare a farsi forza anche con le braccia, poggiando le spugnate mani sulle proprie ginocchia; ma il sudore era tale che i palmi gli scivolarono e rischiò seriamente di finire a terra. Fu Vania che, prontamente, glielo evitò. E, a quel punto, pensò fosse meglio portarlo in camera per farlo stendere un po’ sul letto a riposare.
Una volta seduto sul materasso, il giovane si lasciò andare, crollando miseramente all’indietro con le spalle. Amorevolmente, Vania gli tolse le lucide scarpe nere e gli adagiò le gambe sul morbido talamo. A Biagio girava tutta la stanza. Fissava il soffitto e gli pareva d’essere sul galeone dei pirati di Gardaland. Solo che lui non c’era mai stato, a Gardaland.
La ragazza aprì l’armadio e vi estrasse una coperta leggera, di quelle di cotone; la adagiò con dolcezza sulle gambe di Biagio, preoccupandosi di tenergli al caldo i piedi e infine, con passo leggiadro, quasi insonorizzato, afferrò la maniglia della porta con la mano destra e spense la luce con la sinistra. Mentre si tirava la porta dietro le spalle, udì la voce del ragazzo, strascicata e flemmatica: “Io non ti ci lascerei sola alla domenica, sai Vania… per una partita di pallone…”. Poi più nulla.
Sorrise. Guardò dentro la stanza da quello spiraglio di luce che l’uscio socchiuso nel buio della stanza concedeva alla sua vista. E sorrise ancora, un’ultima volta, prima di chiudere la porta.
La mattina dopo Biagio arrivò a lavoro in ritardo di mezz’ora, ma nessuno se ne accorse. Gli faceva male la testa e aveva solo voglia di dormire.
La signora bionda del giorno prima appena lo vide disse: “Oggi non scappi, ti faccio affiancamento”, e detto questo uscì a prendere un caffè.
Passò un’ora prima che lei tornò e Biagio con fare simpatico le disse: “E il caffè come l’ha preso? LUNGO?”.
“Signor Puglisi non faccia lo spiritoso!”, rispose scocciata la signora bionda. Prese una sedia, si sedette accanto a lui e cominciò a spiegargli i suoi compiti.
Biagio non capiva niente di quello che diceva la signora e la testa gli doleva sempre più, ma stoicamente cercava di darsi un aspetto quasi professionale.
Dopo 15 minuti la signora bionda si accorse del suo stato e rinunciò ad ogni insegnamento: “Puglisi, mi pare che oggi sto perdendo tempo con lei. Rimandiamo tutto a domani”. E detto questo lo abbandonò a sé stesso.
Era contento di rimanere solo e decise di alzarsi e andare a prendere un caffè, ma non appena fece per alzarsi, Vania entrò nell’ufficio.
“Allora? Come va?”
Biagio si bloccò e rimase in una strana posizione: con il sedere leggermente scostato dalla sedia, la schiena piegata e le mani appoggiate nella scrivania. Passarono dei secondi interminabili. Poi disse: “Bene…”
“Bene? E come mai hai quella posizione?”
Biagio recuperò subito una posizione più consona e disse: “Quale posizione?”
“Lasciamo perdere…” e detto questo si sedette nella sedia che fu della signora bionda.
I due così, rotto il ghiaccio, cominciarono a chiacchierare allegramente. Ogni secondo che passava Biagio si invaghiva sempre più di quella ragazza. Era simpatica, intelligente e molto bella.
Dal canto suo anche Vania cominciava ad interessarsi a quello strano ragazzo, gli sembrava dolce e sensibile, cosa che non aveva mai visto in un uomo, specialmente nel suo attuale ragazzo.
Così, molto piacevolmente arrivò la fine del turno, i due videro assieme l’orologio e Vania disse: “E’ ora che andiamo”. Biagio annui e si alzò dalla sedia e nel mentre che si alzò si affacciò il capoufficio e disse sorridendo: “Vedo proprio che si lavora! Allora Puglisi, viene a prendere un bianchetto?”
Un brivido di terrore lo attraversò lungo la schiena.
Che fare? Declinare l’invito del capo (proprio ora che l’aveva preso a simpatia) o rischiare di fare un’altra figuraccia con Vania? Biagio era in preda al panico. Poi, come avviene spesso in questi casi-limite, l’ansia riesce a illuminarti la mente. Con fare rapido, Biagio si girò verso Vania e le disse “Scusami un attimo”; poi si diresse verso il suo capo, gli mise una mano sulla spalla e gli sussurrò da distanza ravvicinata “Signor Dalmazzi, le spiace se rimandiamo a lunedì? Avrei un impegno con la signorina e…” .
Non ebbe nemmeno bisogno di terminare la frase che il capo lo guardò rispondendogli “Aaah, ho capito… bravo Puglisi! Lei sì che ha capito come ambientarsi! Poteva dirmelo subito che c’aveva della figa per le mani! Certo che rimandiamo a lunedì… e mi raccomando: gli faccia sentire di che pasta sono fatti gli uomini del sud! Eh! Eh!”. Detto questo, Dalmazzi gli diede due belle pacche sulle spalle, salutò entrambi i ragazzi e se ne andò.
Mentre scendevano giù per le scale, Vania chiese a Biagio cosa mai si fossero detti lui e il capo poco prima; la risposta del ragazzo fu uno di quei classici “Niente, niente…” buoni per tutte le occasioni.
Giunti all’uscita, Biagio si fermò, guardò la ragazza e disse: “Senti, io volevo… volevo ringraziarti per ieri sera… sai, non conosco nessuno, qui… il capo m’ha invitato a bere con lui… non ci sono abituato e così… ho esagerato…”. Vania lo guardò e rispose: “Figurati. Diciamo che non è stato peggio di quando t’ho visto la prima volta”. Risero entrambi.
Ma la loro allegria fu interrotta dallo strombazzare di clacson della Mercedes di Bruno. “Ah, allora torni con lui…” disse sconsolato Biagio. “Sì – ammise Vania – sai, domani parte per la trasferta e non ci vedremo fino a lunedì, perciò…”. Non terminò la frase.
I due si salutarono molto freddamente e con un po’ di magone. Biagio vide sfrecciargli sotto al naso la Mercedes e se ne tornò alla locanda da solo.
Nel mentre si avviava alla locanda venne fermato da una voce: “Allora Puglisi! La credevo con la ragazza?”. Era il capoufficio che con fare curioso aveva visto tutta la scena.
“Lei è dappertutto, signor Dalmazzi” disse Biagio sorridendo.
“Mi devo preoccupare dei miei sottoposti, no?” disse Dalmazzi sorridendo, “comunque lo conosco quello…”
“Chi?”
“Il padrone della Mercedes. E’ Bruno, il capo dei nostri gloriosi ultras”
“No!”
“Sì, quelli che domenica vi faranno quattro gol…”
“Lasciamo perdere il calcio…”
“Se vuole l’accompagno al club degli ultras. E’ qui vicino. Potrà parlare con il suo contendente…”
Biagio, voleva dire no. D’altronde cosa avrebbe detto a quell’armadio a quattro ante? Ma il capoufficio lo prese sottobraccio e lo accompagnò sin davanti al club ultrà.
“Questo è il luogo. Io non entro perché vado a prendere un bianchetto al bar di fronte. Mi raccomando tenga alto l’onore del nostro ufficio!”
Biagio, non sapeva cosa stava facendo lì, ma senza accorgersene era già dentro a quel club. All’interno trovò una serie di persone poco raccomandabili. E in fondo alla stanza vide l’armadio a quattro ante che dava indicazioni a due ragazzi intenti a creare uno striscione.
L’armadio alzò lo sguardo e disse: “Buonasera signor Puglisi, come mai qui?” Biagio non rispose… E l’armadio approfittò per continuare a parlare: “Ragazzi! Questo qui è siciliano e uno di quelli che domenica prenderà quattro gol, senza storie.”
Il campanilismo del nostro eroe uscì con tutta la sua forza e pur essendo circondato da tipi poco raccomandabili disse: “Senti, con quella squadra che vi ritrovate penso proprio che pagherete dazio.”
Ci fu una risata fragorosa e di scherno verso l’ospite. L’armadio zittì tutti e disse: “Non perderemmo con voi terroni neanche se facessimo scendere in campo la primavera!” Altra risata. “Potrei giocarmi la donna!”
Gli occhi di Biagio si illuminarono e in senso di sfida disse: “Allora se domenica vince il Palermo, mi concedi di uscire con la tua donna”.
L’armadio, visto l’andamento della sua squadra in quelle ultime domeniche era sicuro di una facile vittoria e disse: “Quando si tratta di umiliare gente come te, sono ben contento di giocarmi la mia donna…” Ci fu un acclamazione dei presenti.
“Allora?” disse Biagio “affare fatto?”
“Affare fatto!” replicò l’armadio che incuteva sempre più timore al nostro impiegato statale siciliano.
Piccoli, su azione personale.
Ameori, di testa su calcio d’angolo.
Parzegli, in fotocopia all’azione precedente.
Bresciera, su calcio di rigore.
Per gli ospiti, rete della bandiera di Gasparro, con un secco destro da fuori area.
Risultato finale: 4 a 1 per la squadra siciliana.
Biagio aveva seguito la partita al bar in compagnia di Dalmazzi che, a ogni gol subito dalla sua squadra, annegava il dispiacere in un bianchetto. Toccò al ragazzo accompagnarlo a casa.
Tornato alla locanda, si ritrovò di fronte una scena che non avrebbe mai voluto vedere: in una delle due poltroncine della hall c’era Vania che, con le mani sul volto, singhiozzava.
“Vania! Cos’è successo? Cos’hai?”, le chiese Biagio con fare apprensivo mentre, accorso immediatamente da lei, tentava di capirci qualcosa.
“Sei uno schifoso!”, gridò lei.
“Io? Ma che dici?”, chiese Biagio spaesato e colto di sorpresa.
“Bruno mi ha appena raccontato tutto, al telefono! – disse Vania con veemenza – E così, io dovrei uscire con te per una scommessa, eh? Al diavolo!”
“Ma… ma Vania… aspetta, lascia che ti spieghi…”, balbettò Biagio.
“Non voglio sapere nulla – lo interruppe lei – Per quel che mi riguarda, mi fate schifo! Tutti e due! E ora, vattene!”.
“Ma Vania, io…”, tentò ancora di prender parola Biagio.
“Vatteneeee!”, urlò isterica lei.
Biagio si chiuse in camera a riflettere. Era chiaro che l’aveva fatta grossa: quando accetti certe sfide da persone moralmente “basse”, non puoi non scivolare in basso anche tu. E a Biagio era accaduto proprio così.
Il giorno dopo, appena uscito dall’ufficio, iniziò a cercare casa: pagare un B&B iniziava a pesargli e poi voleva sistemarsi definitivamente.
In una settimana la trovò: in centro, a pochi minuti di strada dal Municipio: un bilocale arredato e con vista sul Duomo. In quel lasso di tempo, non incontrò più Vania, né Bruno.
Quel giorno Biagio si trattenne di più al lavoro, per terminare alcune pratiche.
Dalmazzi lo vide chino sulla scrivania a lavorare e disse: “Allora!? Puglisi, ancora a lavoro? Dai vieni che andiamo in un localino nuovo che mi hanno detto che ha un buon vino!”
Biagio alzò la testa dal computer e rispose: “Capo… Lasciamo perdere… L’ultima volta mi ha fatto ubriacare”.
“In questo ufficio non voglio gente astemia! Dai, vieni con me!”, si avvicinò lo fece alzare, se lo mise sottobraccio e a forza lo portò nel locale.
Si sedettero assieme in un tavolino e ordinarono due bianchetti, Dalmazzi bevve il suo tutto d’un fiato, Biagio sorseggiava lentamente. Era triste e Dalmazzi se ne accorse subito: “E’ da una settimana che non sorridi. Mi vuoi dire cosa è successo?”
“Niente di importante.”
“Allora finisci il tuo bianchetto che ci facciamo un altro giro” Si voltò in cerca di un cameriere, ma non trovò nessuno, “Il locale è bello, ma il servizio lascia a desiderare…” e dicendo così si alzò a recuperare un cameriere.
Proprio mentre Dalmazzi, se ne andò, Biagio si accorse di una presenza in quel locale e vicino al proprio tavolo. Era Bruno, l’armadio a quattro ante, che con fare minaccioso si avvicinava al tavolo.
Biagio si accorse subito dell’armadio. “Questo ce l’ha con me…”. Cominciava ad avere paura. Non era molto bravo a fare a pugni e quando Bruno si fermò vicino a lui temette il peggio. I due ormai erano l’uno contro l’altro. La rissa stava per iniziare.
Biagio recuperando un po’ di coraggio, alzò la testa e guardò in faccia l’armadio, che proprio in quel momento, con un fil di voce che poco si adattava ad un uomo della sua stazza, disse: “A te che ha detto?”. E mentre diceva questo si sedette e mise la testa tra le mani…
Biagio quasi impietosito gli diede una pacca sulla spalla per incoraggiarlo e disse: “Che sono uno schifoso…”
“Anche a me.”
I due rimasero qualche secondo in silenzio, poi Biagio disse: “Beh, ha ragione…”
Bruno si voltò verso il nostro eroe e con un sorriso amaro disse: “Effettivamente…”
Nel mentre Dalmazzi, che ben nascosto aveva seguito tutta la scena si sedette anche lui. Il cameriere si avvicinò: “Cosa vi porto?”
Dalmazzi osservò bene i due ragazzi, distrutti, si rigirò verso il cameriere: “Per me un bianchetto, per i due ragazzi uno schotch… Doppio!”.
Autori
- Lupo Sordo
- Albe direttore dell'Eco Di Dionisio